mercoledì 2 maggio 2007

"Quello che non c’è più. Cose piccole, grandi cose"

LA BOLOGNA CHE VOGLIAMO


Mi ricordo...mi ricordo che quando ero bambino in via Santo Stefano, dalla parte sinistra, a venire dalla porta verso il centro, quella con il portico più deserto c’erano tante buche di calzolai.
Cos’erano? Provate ancora a camminare sotto quei portici. Se state in pizzo sulla strada, sotto i vostri piedi vedrete delle lastre di ferro. Quelle lastre un tempo, ogni mattina, si aprivano e diventavano il tetto di piccoli “uffici”, grandi quanto un’ogiva di sputnik. Dentro ognuna, un calzolaio curvo a battere le suole e attorno a portata di mano, “ricambi” e attrezzi. La buca era alta come l’uomo seduto.
Se si alzava usciva dal “negozio”. Un lavoro miserrimo, ma, com’è noto, utilissimo. Mia nonna li conosceva quasi tutti, uno per uno. Eravamo nel 64. Forse nel ’65. Poi in pochi anni sono spariti. Oggi morirebbero avvelenati, prima che dal puzzo delle colle, dai gas delle auto e dei bus. Ma allora ce n’erano meno, oppure si sopportava di più. E’ strano, quando ne parlo nessuno, neanche i “vecchi”, si ricorda di questi calzolai. Li avrò sognati.

Mi ricordo.....mi ricordo che mio padre mi portava a vedere le formelle in arenaria sulle colonne del Palazzo del Podestà. Ognuna è diversa. Sono 2999. Ogni quadrato un fiore di pietra e, in mezzo, sulla prima colonna, verso Piazza Nettuno, la formella a rettangolo, con i bassorilievi di Re Enzo, già mangiati dal tempo, ma allora ancora visibili. Oggi non si vede quasi niente. Anzi non si vede proprio niente. Un anno con l’inquinamento che abbiamo sfarina l’arenaria come un secolo. Pochi giorni fa mia figlia, con l’aiuto di una vecchia foto fatta dal nonno, l’ha individuata. Quella dove si vedeva Re Enzo nascosto nella gerla di un fornaio, mentre tenta la fuga. La sua fuga, dal palazzotto dove i bolognesi lo tennero tutta la vita, dopo Fossalta, quell’evasione che una donna impedì gridando, dopo aver scorto, dall’alto di una finestra, i suoi capelli biondi brillare in mezzo ai pani. Oggi il disegno della pietra è nell’aria, in mille grani di polvere. La sua fuga è riuscita, finalmente.

Mi ricordo....mi ricordo quando nell’insegna color bronzo del Museo Morandi, in alto a lato della porta dell’ascensore di palazzo d’Accursio, quello fra i due cortili, le viti che lo infiggono nel muro erano quattro. Da molti anni sono rimaste in tre. Il “cartello” di metallo è abbastanza solido da non “ballare”, ma tant’è quella vite manca. Quando è venuto in visita il Presidente Napolitano sono stati messi i tappeti rossi sullo scalone “dei cavalli” ed è stato ripitturato attorno all’ascensore. Era la volta buona per piantare la vite mancante. Niente. Il particolare è sfuggito. Pochi giorni fa è stata sostituita l’intera cabina dell’elevatore. Ora è nuova fiammante.
Ma la vite ancora manca. Chissà: forse il buchetto vuoto, dove andrebbe avvitata, è scaramantico, come i macachi di Gibilterra. Fin quando esisteranno, Albione regnerà sullo scoglio. Fin quando la vite mancherà il Palazzo prospererà. Chissà!


DAVIDE FERRARI